LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso  la  seguente ordinanza 1) all'esito della discussione
del  processo  celebrato  a seguito di appello proposto dalla Procura
della  Repubblica  presso il tribunale di Sassari avverso la sentenza
di  assoluzione pronunciata dal G.u.p. presso il Tribunale di Sassari
nei confronti di: Sassu Giovanni Antonio, nato a Sassari il 24 giugno
1967 e res,nte Bonorva, via Colonna 16, imputato:
        a)  del  delitto  di  cui  agli artt. 56 e 575 c.p. per avere
compiuto  atti  idonei  e diretti in modo non equivoco a cagionare la
morte di Piras Salvatore Angelo, avendo esploso nei suoi confronti un
colpo  di pistola cal. 7,65 da distanza ravvicinata, che attingeva il
Piras   all'emifaccia  sinistra,  all'altezza  della  mandibola,  con
tramite  nelle  parti  molli  del collo e foro di uscita nella faccia
laterale  destra  del  collo, passante a poche frazioni di centimetro
dalla   carotide,  dalle  giugulari  e  dal  midollo  cervicale,  non
riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla sua volonta';
        b)  del  delitto di cui agli arti 582 e 585 c.p. in relazione
agli  artt. 576 comma 1 n. 1 e 61 n. 2 c.p. per avere, nelle medesime
circostanze di tempo e di luogo del delitto di cui al capo a) al fine
di  eseguire  il  delitto  sub  a)e cioe' di evitare un intervento di
Cogoi  Michele a difesa di Piras Salvatore Angelo, avendo colpito con
il  calcio  della  pistola  al volto il Cogoi, a lui cagionato ferite
lacero  contuse  al  mento  in  sede  paramediana sinistra e al cuoio
capelluto temporale destro, guarite entro venti giorni.
    In agro di Bonorva il 26 gennaio 1999.
    Ritenuto  che  nella  odierna udienza il p.g. ha osservato che, a
seguito  della entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46,
applicabile,  a  norma dell'art. 10 di essa, anche ai procedimenti in
corso,  il  gravame  del  procuratore  generale  dovrebbe essere, con
ordinanza   inoppugnabile  giusta  l'art. 10.2  della  legge  citata,
dichiarato  inammissibile  avendo  l'art. 2 della medesima legge reso
inappellabili  le sentenze di proscioglimento pronunciate ad esito di
giudizio  abbreviato,  e  che tuttavia, essendo ravvisabile contrasto
fra gli articoli 1, 2 e 10 della legge n. 46/2006 e gli artt. 3 e 111
della  Costituzione,  la Corte dovrebbe rimettere gli atti alla Corte
costituzionale;
    Sentito il difensore dell'appellato che, sul punto, si e' rimesso
alla decisione della Corte;

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo.
    Il  risultato  e'  quello  della  rapida definizione dei processi
penali  conseguita  attraverso  la  decisione del processo solo sulla
base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se
in  un  quadro  siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi  contro  le sentenze di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del generale interesse del p.m. a proporre
appello   contro   le  sentenza  di  proscioglimento  conserva  piena
validita'  il  richiamo  contenuto nel messaggio del Presidente della
Repubblica  alle  Camere  la'  dove  si  osserva che «la soppressione
dell'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.
    ll principio di non colpevolezza implica soltanto il fatto che le
conseguenze  pratiche  della  condanna  possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter  per  il  quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il
quale  la  colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata
oltre  ogni  ragionevole  dubbio  sembra,  invece, in questo caso, un
principio   di   lettura  equivoca,  posto  che  se  si  sostiene  la
inappellabilita'  della  sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  con la stessa
sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando   si   osservi   che  nella  stesura  definitiva  della  legge
20 febbraio  2006, n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato
il  diritto  d'appello  avverso le sentenze di assoluzione (la genesi
della  locuzione  del  secondo  periodo  dell'art. 576  c.p.p. alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera'  tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente riservato
un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto  che alle parti private e
questo  dato,  indubitabile,  non  puo'  che far risaltare in maniera
ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per effetto delle norme che
vengono  sottoposte  al  giudice  delle  leggi,  dal  principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art. 112  della  Costituzione  e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal comma terzo
dell'art. 27  della  stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste  due  norme  si  ricava  che  l'ufficio del pubblico ministero
(parte  pubblica,  e  quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti
ispirati  a  massima correttezza e moralita', oltre che onerata anche
della  ricerca  degli elementi favorevoli all'imputato) non e' quello
di ottuso persecutore degli incolpati, ma di soggetto che persegue il
compito,  della cui primaria importanza si e' detto, di far si' che i
soggetti  devianti  vengano  recuperati  ad  una  convivenza civile e
ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del pubblico
ministero, nel rispetto del principio di parita' delle parti, si deve
esplicare significa in definitiva legiferare in contrasto, anche, con
le due previsioni costituzionali ora richiamate.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.